La Morte dell' Autodelta
by Vladimir Pajevic
Autodelta Golden Years Storico Senior
Ingloriosa fine dell’Autodelta è stata la cronaca di una morte annunciata.
Dopo una sequenza di stagioni senza risultati, era evidente che la scuderia ha imboccato una discesa senza possibilità di risalita. La lenta agonia era cominciata con il cambio ai vertici decisionali dell’Alfa Romeo, quando Giuseppe Luraghi, l’artefice e abile stratega della rinascita della casa del biscione, sconfitto dalla meschinità di una miope politica, ha sbattuto con rabbia la porta, lasciando per sempre amata fabbrica alla quale ha dedicato i migliori anni della propria vita professionale.
In quegli anni lo scenario dell'economia italiana era ormai del tutto cambiato. La crisi petrolifera degli anni ’1970, ha imposto una logica nel mondo industriale che si può definire senza mezzi termini minimalista, dove le grandi e medie grandi imprese statali si orientavano verso la ricerca del risparmio, tagli e privatizzazioni.
In questa luce, l’Alfa Romeo, azienda dello stato italiano che fa capo all’IRI, era nel mirino dei critici degli sprechi ed era meglio se veniva alleggerita dai costi esorbitanti del mondo delle corse.
Ettore Massacesi, che (dopo breve parentesi della dirigenza di Gaetano Cortesi, incline a preservare ridotta attività sportiva), da bravo tecnocrate senza visione storica dell’immagine della fabbrica nell’attività agonistica, ha cominciato il progressivo smantellamento del settore sportivo sito nel Settimo Milanese.
La piccola fabrica che produceva le vetture da corsa, creata e diretta dall’ingegner Chiti, anche in virtù della scarsa simpatia umana fra i due protagonisti, era destinata a scomparire.
Tuttavia, il peso specifico del marchio Alfa nel mondo delle competizioni, era tale che l’eutanasia doveva essere quasi impercettibile.
E infatti, tutto avvenne mimando apparente normalità, cambio generazionale e spostamento dell’interesse verso altri settori agonistici. La figura chiave era comunque Carlo Chiti, toscano, ingegnere aeronautico classe 1924, uomo poliedrico è per molti aspetti geniale. Di un’erudizione vasta, eloquente, polemico, talvolta anche burbero, ma anche cordiale, profondamente umano, quasi figura paterna per i suoi “ragazzi”, incurabile cinofilo, “Chitone” (così chiamato per imponente stazza), era padre padrone dell’Autodelta, feudo personale, dove esercitava un potere quasi assoluto, rispettato dai collaboratori e adorato dai propri tecnici e lavoratori. Rapporto di reciproca stima e simpatia che esisteva fra Luraghi che ha voluto Chiti ad ogni costo alla guida del reparto corse, e vulcanico pistoiese, inventore dei miracoli, fu drasticamente cambiato in aperta antipatia che toscano non riusciva a mascherare nei confronti di nuovo direttore generale Massacesi, tanto da lasciare il rapporto fra i due ad un livello quasi inesistente. Chiti, come anche Luraghi, aveva un rapporto con Alfa Romeo che con sequenze alterne durò tutta la sua vita.
Viene assunto all’inizio degli anni Cinquanta e subito destinato all’Alfa Corse. Poi, nel 1957 passa alla Ferrari, dove rimase fino al 1961, creando per Drake le vetture vincenti dei campionati F1, e viene ricordato anche come progettista che convinse Enzo Ferrari a adottare la posizione posteriore del propulsore sulle macchine da corsa.
Il rientro all’Alfa avviene nel 1966, dopo un divorzio traumatico con la Ferrari e il passaggio per l’ATS, da lui fondata con Giotto Bizzarrini, l’altro toscano, collega ingegnere, e come lui transfuga dalla Ferrari.
L’Autodelta era nata come una struttura esterna, ma ha rimpiazzato con successo il reparto fino ad allora noto come Alfa Corse. Negli anni a venire, l’ascesa dell’Autodelta è costante e la piccola fabbrica incorporata come ala sportiva del marchio, nel giro di un decennio, sarà il simbolo vincente in ogni campo dello sport automobilistico, fino all’approdo in F1, sogno che Chiti caparbiamente persegue con intenzione di vincere il campionato della massima formula.
In quel settore, oltre un valido progetto e la costanza, il fattore determinante che decide il successo è un potente flusso del denaro, che permette la continua ricerca e costosissima sperimentazione. Luraghi, innamorato dello sport automobilistico e sensibile all’immagine che Alfa Romeo ha conquistato nei decenni dei trionfi sulle piste di tutto il mondo, rimaneva in aperta polemica con allora il ministro delle Partecipazioni statali Gullotti, che non condivideva la visione di Luraghi del posto dell’Alfa Romeo in futuro.
Nonostante lo scontro ormai aperto, Luraghi continuava a fornire fondi necessari per lo sviluppo del programma per le vetture da corsa, che nascevano sotto la guida di Chiti al Settimo Milanese.
Quando nel gennaio del 1974 Luraghi, silurato dai vertici dell’IRI, non fu riconfermato nell'incarico di presidente dell'Alfa Romeo, la sua estromissione segnò la sconfitta, senza appello, della strategia che mirava ad attribuire all'Alfa Romeo un ruolo di primo piano. Rimasta orfana del suo deus ex machina, che con saggezza intuiva dove e quanto investire per mantenere alta la bandiera del marchio milanese, Alfa Romeo era diventata fertile terreno usato dai politici per ottenere i voti, e l’Autodelta, una scuderia quasi alla deriva, privata dall’attivo supporto finanziario, indispensabile per mantenere livello di efficienza necessario per correre. La crisi iniziata nel 1974 e costellata in seguito dai poco efficienti tentativi di recupero e salvataggio del marchio si sarebbe trascinata, per un altro decennio senza una soluzione, fino alla sfavorevole vendita dell’azienda alla FIAT.
Il declino dell’Autodelta, ha seguito pedissequamente il destino della casa madre, ma si era concluso nell’arco di tempo più breve. Riassunto cronologicamente, era segnato dalle tappe di un repentino abbandono dei circuiti in veste ufficiale ed anche in un disimpegno dell’attività di supporto offerto precedentemente dal marchio alle scuderie associate anche al livello di fornitura dei motori e assistenza nelle corse.
Sporca e mai dichiarata guerra che segnerà la fine dell’Alfa Romeo e ancor prima, di Autodelta, inizia con l’uscita di scena di Luraghi, sostituito per una breve dirigenza dell’azienda da Gaetano Cortesi un tecnocrate che però nutriva un discreto interesse per l’operato di Chiti e Autodelta in campo sportivo. È l’arrivo, favorito dalla politica del partito di maggioranza relativa, di Ettore Massacesi, il CEO scelto dall’IRI, uomo proveniente dall’Intersind e che con automobili e soprattutto automobilismo sportivo, non aveva nessun punto d’incontro, la chiara indicazione della via intrapresa dell’abbandono di ogni attività che non era essenziale per le finanze della fabbrica in difficoltà.
Ma il futuro prossimo prevedeva impegno della fabbrica come casa costruttrice delle vetture di F1, e nonostante tutte le simpatie umane di Carlo Chiti erano dalla parte di Luraghi, il suo impegno nella progettazione del motore per la F1, la sua passione per le corse e una vita investita nell’Autodelta, suggerivano di continuare sul posto di comando della fabbrica di Settimo Milanese.
Tra Massacesi, il suo fedele scudiero, Corrado Innocenti, fatto Amministratore Delegato, e Carlo Chiti la frattura era immediata e insanabile, e in risposta dalle stanze di comando ad Arese, partivano gli intrighi e le congiure di palazzo con l’unico scopo di facilitare uscita di scena di Carlo Chiti, liberandosi anche dell’Autodelta e la spesa esorbitante che l’agonismo comportava.
L’ingresso del valido tecnico francese Gerard Ducarouge all’Autodelta era il motivo per vulcanico Chiti di entrare nei frequenti scontri con il tecnico francese al quale viene sussurrato nell’orecchio che la sua presenza in Autodelta potrebbe toccare livelli alti. Chiti, comunque, oltre alla scarsa simpatia provava rispetto per bravo tecnico francese.
Ma il vero spirito maligno nella triste favola del declino, era Giampaolo Pavanello, proprietario dell’Euroracing, potente scuderia che dominava il campionato delle Formule minori.
Pavanello, abile organizzatore, aveva fatto risultati di rilievo nella F3 dove ha fatto correre molti piloti futuri campioni e dove ha valorizzato i propulsori dell’Alfa Romeo. Fu favorito come candidato per la guida del settore sportivo del marchio, ma soprattutto agli occhi di Massacesi era visto come limitatore del potere e l’influenza di Chiti nel campo delle corse.
Con le stesse intenzioni, nell’Alfa Corse saranno aggregati come freni a Chiti anche Marmirolli, Tolentino e alla fine Tonti prelevato dalla Lancia, che nonostante la loro provata bravura, non erano riusciti a tirare il settore sportivo dell’Alfa, fuori dal pantano. Minardi, altro aspirante socio e manager sportivo di successo, fu giudicato troppo vicino alla FIAT, e all’epoca lasciato fuori, nonostante il suo ottimo rapporto personale con Chiti, che lo preferiva a Pavanello.
Alfa Romeo nel 1982, ufficializzava il suo ritiro dall’attività in F1, rimanendo solo fornitore dei motori per le squadre che erano intenzionate a servirsi dei magnifici propulsori fatti da Chiti. Il contratto con Brabham ormai era passato remoto e naufragate anche le trattative con Williams, Ligier, McLaren e qualche altra casa che alla fine puntualmente rinunciava sconfitta dalla macchinosa burocrazia statale italiana. Pavanello invece si proponeva come uomo dei miracoli in grado di assicurare soldi e gli sponsor importanti, e con Massacesi aveva sviluppato un rapporto di fiducia.
A Chiti importava poco, cercava solo la tranquillità e i mezzi per finire i suoi progetti già in fase avanzata. Con incredibile pazienza per il suo carattere esplosivo, subiva affronti dai vertici della fabbrica dove Massacesi aveva già reclutato anche i “grandi” del passato come Surace e Russo, e anche qualcuno della squadra di Chiti come Giovanni Marelli per esempio.
Nel frattempo, Autodelta, veniva svuotata e trasferita da Settimo Milanese a Senago, lasciando incustodito tutto l’archivio alla mercè del vento e pioggia nei capannoni ormai privi di porte e finestre. A Pavanello era andato in dote tutto il tesoro motoristico, nonostante le altosonanti offerte in denaro da parte di Giancarlo Minardi e Bernie Eclestone, pronti a sborsare miliardi per avere motori e segreti tecnologici creati da Chiti. L’agonia dell’Autodelta finiva con la morte prematura.
Chiti ormai spodestato sbatteva per sempre la porta dell’Alfa Romeo, già sognando nuovi progetti e cercando le ve nuove. Creerà Motori Moderni e continuerà di progettare motori straordinari fino al caldo giorno di luglio 1994, quando tradito dal suo grande cuore, parti per i paddock celesti.
Quello che era l’Autodelta, una delle scuderie migliori nella storia dell’Auto sport, fu lasciato in pasto agli avvoltoi e sotto la direzione scialba e incapace, sotto altri nomi e con altra gente, scomparì un po prima della sua casa madre, anche lei parte del grande sogno infanto.
Alfa Romeo ha portato con orgoglio per 76 anni il proprio nome, vincendo tutto che sotto il sole si poteva vincere nell’auto sport.
Oggi esiste solo il glorioso nome come un marchio incorporato nel concerno Stellantis, me questa è un'altra storia.
--Vladimir Pajevic--
Copyright: Robert Little
September 12, 2022
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La Morte dell' Autodelta
Testo di Roberto Motta
Illustre Giornalista Italiano di Sport Motoristici
L’Autodelta, il reparto corse interno dell’Alfa Romeo diretto dall’ingegner Chiti, venne progressivamente smantellata, con una logica politica e partitica. A confermare quanto detto, basta ricordare che l’Alfa Romeo, fino al 1986, era un’azienda dello Stato Italiano, che faceva capo all’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, allora presieduto da Romano Prodi.
Era un periodo di ‘tagli’ e il governo intendeva recuperare capitali finanziari dando il via a una serie di privatizzazioni, e quindi vendere a nuove società, tutto quello che era appetibile.
Tra le aziende che avevano un importante rilevanza economica, ricordiamo l’Alfa Romeo, società cui erano interessate sia la Ford che la FIAT. Quindi i vertici dell’IRI decisero di metterla all’asta. Era ovvio che la vendita di una simile entità industriale avrebbe richiesto tempo e, per renderla più appetibile, andava alleggerita dai costi di gestione del reparto corse.
I piani prevedevano che l’Alfa Romeo mantenesse un’immagine di solidità per essere attraente, quindi, i vertici dell’IRI decisero di privarla del reparto corse, ossia dell’Autodelta.
Tutto questo doveva però doveva avvenire lentamente, senza destare sospetti, e doveva avvenire con una lunga e lenta agonia.
L’Autodelta, era divenuta il reparto corse Alfa Romeo nel 1963, quando la Casa del ‘Biscione’ era capitanata da Giuseppe Luragi.
Nei 14 anni della sua presidenza, Luraghi trasformò l’Alfa Romeo in un colosso industriale e ritornò grande nel mondo delle competizioni proprio grazie all’acquisizione della Autodelta.
In questo periodo l'Alfa Romeo si espanse in Italia e all'estero, producendo auto di grandi prestazioni, e l'apertura di un grande e nuovo stabilimento a Pomigliano d’Arco (Napoli). Nel 1973 la Casa del Portello stava vivendo l’ennesimo periodo di crisi economica, e il piano di rialzo previsto da Luraghi fu bocciato.
La gestione Luraghi fu messa in discussione dallo scontro con il presidente dell'IRI Giuseppe Petrilli, esponente del partito della Democrazia Cristiana), che voleva realizzare un terzo stabilimento Alfa Romeo in Irpinia, territorio elettorale dell'allora ministro dell'Industria Ciriaco De Mita.
Lo scontro tra Petrilli e Luraghi portò alle dimissioni di quest’ultimo dall'azienda.
Nel periodo della presidenza Luraghi, l’Autodelta aveva ampiamente dimostrato le sue capacità, tecniche-sportive fino ad arrivare alla vittoria del Mondiale Sport Prototipi nel 1975 e nel 1977, con la favolosa 33TT12. Poi. Con la fornitura dei propulsori alla Brabham e aveva riportato il biscione in F1 con una vettura tutta italiana, tanto che i giornali del settore speravano al ritorno di uno scontro tra l’Alfa Romeo e la Ferrari. Scontro che era già avvenuto nel Mondiale Marche.
Il 30 maggio 1978, insieme a Corrado Innocenti (amministratore delegato) si insediò ai vertici dell'Alfa Romeo Ettore Massaccesi, che annunciò che avrebbe portato l’Alfa Romeo al pareggio di bilancio in quattro anni. Non fu così.
La gestione Massacesi-Innocenti va ricordata come una gestione fatta con la continua presentazioni di piani finanziari-economici che non vennero mai mantenuti. Una gestione farraginosa e scelte fatte di tagli che portarono a un futuro sempre più incerto e a perdite sempre più ingenti che portarono alla difficile situazione sindacale degli stabilimenti del Nord dove evidenziò l’eccedenza di 3500 dipendenti.
Dal 1982 al 1989, presidente dell’IRI fu Romano Prodi, che fu l’artefice di una serie di privatizzazioni di natura schizofrenica dovuta alla sua incapacità di opporsi ai vertici politici.
Con l’arrivo di Prodi all’IRI, e la crescente paura di Massacesi di essere sollevato dal suo incarico, portò alla fine dell’Autodelta e, poco dopo alla vendita, della Alfa Romeo alla Fiat.
"Ma cosa successe all’interno dell’Autodelta?"
Come accennato, Massacesi diede il via a una serie di tagli indiscriminati, che si riversarono anche sull’attività agonistica. Uno degli eventi che condizionò la competitività dell’Alfa Romeo in F1, fu lo scontro tra la FISA e la FOCA cui aderivano la totalità delle scuderie britanniche. La FISA chiedeva l’abolizione delle ‘minigonne’ per motivi di sicurezza, e la FOCA voleva la messa al bando del propulsore turbocompresso, considerato troppo costoso.
L’abolizione delle minigonne fu uno dei motivi della perdita di competitività della Typo 179, alla quale si aggiunse il ritiro della Goodyear alla fine del 1980.
L’anno successivo fu per l’Alfa Romeo fu un vero calvario e, sulla griglia di partenza Bruno Giacomelli e Mario Andretti difficilmente riuscivano a superare la metà dello schieramento.
A Silverstone, in occasione del Grand Prix di Inghilterra, Gerarde Ducarouge fu licenziato dalla Ligier e, certo delle sue qualità tecniche, Ing. Chiti convinse i vertici Alfa ad assumerlo.
Il ‘Duca’ entrò a far parte, come consulente, dell’Autodelta a partire dal Grand Prix d’Austria a metà agosto e, con il suo aiuto, la 179 diventò più competitiva fino a conquistare il 3° posto, con Giacomelli, al Grand Prix di Las Vegas.
Ducarouge puntò subito alla gestione operativa dell’Autodelta, e si propose ai vertici Alfa Romeo come la persona adatta a sostituire Ing. Chiti.
Per i vertici Alfa Romeo era una occasione d’oro per ridimensionare Chiti e l’Autodelta in vista della vendita della Casa.
Nei primi giorni del 1982, Chiti fu nominato Presidende dell’Autodelta, Mario Felice Direttore Generale, cui fu affidata la gestione economica, e Ducarouge assunse il ruolo di Direttore Tecnico e gli venne affidata la gestione operativa. Ing. Chiti fu così messo all’angolo e non avrebbe potuto interferire sulle scelte di Ducarouge.
Con la Typo 182, l’Alfa affrontò una stagione interessante, ma il clima all’Autodelta iniziò a degenerare rapidamente e Massacesi guardava alla F1 sempre più apprensione.
I vertici dell’IRI premevano perché si ottenessero risultati e, nel frattempo, non intendevano mettere a disposizione un ulteriore apporto economico. Tutto questo mentre anche l’Alfa Romeo stava affrontando l’ennesimo periodo economico negativo.
Massaccesi pensò di tornare alla sola fornitura dei motori, scelta che sarebbe stata meno traumatica che un ritiro dalle competizioni a partire dal 1983.
Il suo mandato stava per finire e Massacesi, dopo che ai vertici dell’IRI fu nominato Prodi, mirava ai vertici della Finmeccanica, una multinazionale italiana specializzata in aerospazio, difesa e sicurezza e non intendeva sobbarcarsi le spese dell’Autodelta che nel solo 1982, aveva speso 15 miliardi di Lire, il 10% delle perdite totali dell’Alfa Romeo.
Quindi Massacesi era pronto a raccogliere i consigli di chiunque avesse potuto porre fine ai suoi travagli.
Puntualmente, si presentò il genio di turno: Nicolò di San Germano, giovane e ‘brillante’ manager in cerca di gloria, della Philips Morris, destinato dalla Casa Madre di Losanna a seguire la sponsorizzazione dell’Alfa Romeo.
San Germano propose alla dirigenza della Casa milanese di cedere in gestione la squadra di Formula 1 e di affidarne la gestione al team Euroracing, scuderia di Gianpaolo Pavanello distintasi in Formula 3 vincendo campionati italiani ed europei.
Secondo l’ottuso uomo Marlboro, una simile scelta avrebbe garantito l’abbattimento dei costi di gestione e l’aumento del gettito delle sponsorizzazioni poiché l’attività sportiva della Casa non sarebbe più stata gestita da una ‘azienda di stato’, bensì da un’agile organizzazione privata. Detto questo, Massaccesi decise di affidare all’Euroracing la gestione della squadra di Formula 1 a partire dalla stagione 1983.
Tutto il materiale Autodelta fu dato in comodato, ossia gratis, all’Euroracing, e la nuova scuderia avrebbe potuto contare sulla fornitura dei motori turbo 8 cilindri e sull'assistenza tecnica dell'Autodelta. Nello stesso periodo, Massacesi pensò di trasferire la costruzione dei motori all’interno dell’Alfa Romeo, eliminando l’Autodelta e liberandosi di Chiti. A tale proposito furono allertati gli ingegneri Surace e Russo.
Era la fine.
La storia dell’Alfa Romeo F1 e dell’Autodelta finirono qui e, come dice una famosa canzone italiana ‘Tutto il resto è noia’.
Un surrogato di quello che era l’Alfa Romeo F1 continuò a competere fino a fine 1985, quando le vetture del Portello non riuscirono a conquistare neppure un punto.
Nel frattempo, nel novembre 1984, Ing. Chiti incontrò Prodi, Presidente dell’IRI’ e rassegnò le sue dimissioni e, con Paolo Mancini, un imprenditore fiorentino, fondò la Motori Moderni destinata a progettare e realizzare propulsore turbo per la Minardi.
L’Autodelta fu chiusa nel 1986 e rimpiazzata in seguito dalla nuova "Alfa Corse".
Nel novembre del 1986 l’Alfa Romeo venne acquistata dalla Fiat per 1700 miliardi di lire, anche se si dice che in realtà il governo incassò solo 1000 miliardi, poco dopo la Fiat acquistò anche la Lancia…
...ma questa è un’altra storia.
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--Roberto Motta--
Copyright: Robert Little
September 12, 2022
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